Il tuo capo è uno stronzo? È un suo problema
Secondo un report una persona su quattro lavora attivamente contro la sua azienda. Un atteggiamento che deriverebbe dalla mancanza di cultura manageriale in Italia
Cari amici dell’orso Bruno,
«Quasi ogni settimana, mentre mi siedo per scrivere questa newsletter, sono preso dal panico: la sensazione dura da pochi minuti a mezza giornata ed evapora solo quando emerge un'idea e trovo le parole per trasmetterla».
Questa citazione potrebbe essere davvero mia ed è invece di una firma ben più importante, quella di Gal Beckerman, senior editor all’Atlantic, che cura appunto una newsletter e si occupa perlopiù di libri. Se esiste un oceano fra me e lui – e non intendo solo l’oceano Atlantico – eppure proviamo sensazioni così simili, allora significa che il tema è davvero più condiviso di quello che potremmo credere.
Personalmente ho ricevuto un altro piccolo indizio la settimana scorsa. In un’altra newsletter scrivevo del “blocco dello scrittore”, ovvero della profonda incapacità – talvolta solo momentanea, altre volte cronica – di trovare idee e di esprimerle a parole in un testo scritto che sia piacevole da leggere.
Un paio di amici dell’orso Bruno mi hanno scritto per dire che talvolta condividevano quella stessa sensazione. È in qualche modo consolatorio scoprire che le frustrazioni che pensavamo fossero solo nostre sono invece molto comuni.
A volte ci diamo colpe che non meritiamo, ci sembra di vedere solo perfezione attorno a noi ed è invece il racconto di tutto quello che non funziona che dovrebbe emergere di più, per farci capire che lavorare bene non significa essere perfetti, ma riuscire a dare il meglio accettando i limiti che ci rendono umani.
La questione del “blocco dello scrittore” – come scrive Beckerman – non riguarda per altro solo chi sta lavorando a un romanzo che non concluderà mai, o chi comunque scrive per lavoro. Può colpire chi deve scrivere un’email o un biglietto di auguri per il compleanno.
«La sensazione che si prova è come quella di aver perso le chiavi», spiega Beckerman. «So che sono in casa da qualche parte. So di averle lasciate sul bancone della cucina ieri sera, o forse le ho dimenticate in macchina? In ogni caso esistono. Il problema è che in questo momento non sono nella mia tasca, dove ne avrei più bisogno».
Frustrati
Il «blocco dello scrittore» e la perdita di ogni ispirazione creativa è per altro un tema davvero particolare, perché riguarda persone che per lavoro scrivono e che quindi sono più portate – scusate il gioco di parole – a scriverne.
Sempre l’Atlantic ha fatto una lista di otto libri da leggere per affrontare un blocco creativo. È probabile che se ne possano trovare molti altri in libreria.
Viene invece meno raccontata quella tendenza molto comune a non riuscire più a fare il proprio lavoro, qualsiasi lavoro sia. Il fatto che si possa perdere la motivazione, o anche la capacità di affrontare un compito: i blackout che capitano in qualsiasi professione e che in qualche caso possono essere momentanei e in altri casi diventare cronici.
Il «blocco dello scrittore» è molto particolare, perché riguarda il tema dell’ispirazione creativa, che è tanto misteriosa che i greci pensavano provenisse da una musa. Ma se lasciassimo un attimo da parte questo aspetto, ci renderemmo conto che siamo circondati da persone bloccate: abbiamo impiegati bloccati, insegnanti bloccati, cassieri bloccati e vigili urbani bloccati.
Un mondo di frustrazioni che in qualsiasi attimo rischia di implodere.
Il report
Il risultato di questa situazione generale si ritrova in un report scritto dall’istituto di analisi Gallup e ripreso da qualche giornale. Secondo questa ricerca, una persona su quattro rema contro l’azienda per cui lavora. Ha accumulato così tanta frustrazione da diventare un sabotatore.
Come scrive Repubblica, «la ricerca divide i lavoratori in tre tipologie. Ci sono quelli “impegnati” che si possono dire entusiasti e coinvolti tanto nel loro lavoro quanto nel luogo in cui lo esercitano. Una risorsa di ottimismo per i loro responsabili: sono gli impiegati che guidano l’innovazione e il progresso della loro organizzazione. Poi ci sono quelli “non impegnati” che al lavoro dedicano sì tempo, ma non energie e passione. Infine ci sono quelli “attivamente disimpegnati”, che arrivano a “remare contro”. Queste persone non sono solo insoddisfatte, ma addirittura risentite perché stanno in un posto che non risponde alle loro aspirazioni. E per questo trascinano al ribasso anche chi lavora al loro fianco».
Secondo la ricerca, in Italia il 25 per cento dei lavoratori fa parte dell’ultima categoria, rispetto alla media europea del 16 per cento.
Trovarsi bene
Lasciamo perdere l’affidabilità della ricerca in sé, che parte dal campione di un migliaio di lavoratori (ma è un campione ritenuto rappresentativo), la riflessione è comunque interessante se si cerca di interpretarla. Guarda caso, l’istinto è ovviamente di dare tutte le colpe agli stessi lavoratori. Se sono rei di sabotaggio dovrebbero essere processati in sala mense, non trovate?
Federico Orlandini, uno dei curatori della ricerca, intervistato qualche giorno fa dall’Huffington post e da radio 24, ha invitato a rivolgere lo sguardo altrove. E ha individuato invece la responsabilità nella mancanza di cultura manageriale in Italia.
«Ovviamente ci sono altri aspetti che hanno un ruolo, come gli stipendi bassi», ha detto Orlandini a Radio24. «Ma ciò che importa davvero è la realtà che vivo quando vado al lavoro. So cosa devo fare? Ho un lavoro che mi soddisfa che mi permette di avere uno scopo, una missione o un obiettivo più alto? Mi trovo bene? I dati dicono di no».
Fare i manager
Questi sono i casi in cui i blocchi lavorativi non vengono affrontati da chi dovrebbe farlo. E, ancora una volta, non basta sperare che sia solo l’autoanalisi dei vari soggetti coinvolti a risolvere i problemi che si accumulano.
Portare avanti una cultura del lavoro solo orientata al profitto, in cui il singolo individuo è un numero o un ingranaggio disperso in una macchina più grande, o il mero esecutore di ordini che risentono delle emozioni del datore di lavoro, rischia di compromettere per sempre il patto su cui si basa ogni professione. È un’illusione immaginare che possa bastare l’equazione: ti do dei soldi in cambio del tuo tempo.
Pensare che un singolo dipendente possa essere fedele solo per lo stipendio che riceve – soprattutto quando quello stipendio è basso – è altrettanto un’illusione.
Gestire le persone significa provare a capirle. E siccome i rapporti umani si basano sempre sui fraintendimenti, significa mettere in dubbio costantemente anche quello che si credeva di avere capito.
Per questo fare i manager è tanto difficile. Perché non basta un prontuario di formule Excel per sciogliere i blocchi delle persone che lavorano per noi. Ma se non si interviene in tempo, la crisi diventa cronica. E alla fine sarà un problema che riguarderà tutta l’azienda.
Per questo episodio è tutto,
Daniele
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