Il mio anno del pensiero magico
Un anno di lutto mi ha insegnato un'infinità di cose sulla vita che prosegue dopo la morte e cosa ci succede quando si sperimenta uno shock emotivo
Cari amici dell’orso Bruno,
Ci sono alcuni momenti dell’anno in cui il viaggio in treno, da Roma a Trento, sembra quasi una traversata che ti porta in un altro mondo. A pochi giorni dal Natale del 2022 sono partito che avevo il cappotto ancora aperto, pieno di sudore mentre attraversavo via Giolitti con il trolley che sobbalzava a ogni buca. In mano avevo una borsa di stoffa con il logo del giornale, e dentro un panettone artigianale che da lì a qualche ora avrei regalato ai miei genitori.
Arrivato a Trento la città odorava di festa, in un modo che solo chi è nato qui sa riconoscere. O più probabilmente era una mia suggestione, visto che erano mesi che contavo i giorni che mancavano alle feste, arrabbiandomi ogni volta con chi dimenticava di accendere l’albero di Natale prima del mio arrivo in redazione.
Il freddo era così pungente che sembrava diventare un tutt’uno con il sangue. Quando ho visto mio padre, che aspettava nel parcheggio della stazione nascosto in un giaccone un po’ sformato dal tempo, gliel’ho detto: «Che freddo che fa qui». «Freddo?», mi ha risposto. «Pensa che oggi è più caldo del solito».
Ormai mi ero abituato al clima di Roma.
Il primo momento in cui ho capito che qualcosa non andava è stato sulla strada verso il mio paese. Per un paio di volte ha sbagliato a ingranare la marcia. In quel momento aveva meno di un mese ancora da vivere, e la malattia – di cui ancora non sapevamo nulla – sembrava volersi presentare col rumore sinistro del motore di un’auto.
In fondo la morte che cos’altro dovrebbe fare per annunciarsi?
Il giorno dopo, alla vigilia di Natale, camminavo al buio con la mia migliore amica, sulla strada che scendeva da una collina. Lì sopra c’è un piccolo villaggio dove organizzano il Natale alpino, una festa per bambini, con babbi Natale con la barba posticcia e le lucine attaccate ai balconi.
Con la voce un po’ impastata dai segni del vino caldo, le ho detto: «Sai, mio papà mi sembra invecchiato».
Era vero. Ancora non sapevo che il suo fegato stava già smettendo di funzionare e quella patina che gli vedevo nel viso erano i segni della bilirubina che era in circolo nel sangue. Neanche sapevo cosa fosse la bilirubina.
Da qualche parte avevo letto che chi ha problemi al fegato si colora di giallo, come i Simpson. In realtà è una tonalità più sfumata, che non riesci a capire quanto sia vera e quanto sia una suggestione. Da lì a qualche giorno avremmo guardato con sospetto le luci dell’ospedale, per capire se erano loro a cambiare i colori. Affidavamo la nostra vita a una lampadina.
«È il tempo che passa, non devi preoccuparti», ha detto la mia amica mentre camminavamo. E aveva perfettamente senso. Mi sono tranquillizzato.
Conto alla rovescia
So di non essere particolarmente originale, ma How I met your mother è la mia serie tv preferita. È come una coperta di Linus che uso quando ho bisogno di un po’ di conforto.
Uno degli episodi più famosi è quello in cui muore il padre di Marshall, uno dei protagonisti. Durante la puntata ci sono dei numeri nascosti sullo sfondo delle scene: su una porta, su un quaderno o su un taxi. Messi tutti insieme, questi numeri formano un “conto alla rovescia” che solo alla fine acquista un senso: è come se qualcosa nel mondo si fosse già messo in moto e il destino stesse per compiersi.
Io mi sento così infinitamente impreparato di fronte al concetto di destino, al fatto che ci sia qualcosa che comunque dovrà succedere. A volte è consolatorio immaginarsi come parte di un ingranaggio, che comunque si muoverà qualsiasi cosa faremo. A volte è invece spaventoso. Così si finisce per smettere di chiedersi il “perché”, accettando semplicemente che vivere significa che le cose “succedono”.
Quello che è certo è che il tempo per mio padre si stava esaurendo e, nel giorno di Natale, nessuno di noi ancora lo sapeva.
Il 26 dicembre del 2022 ha iniziato a comportarsi in maniera strana. Si è appoggiato al divano pensando di dovere andare a lavarsi i denti dopo pranzo, quando erano le 11 del mattino e no, non aveva ancora pranzato. Quando abbiamo scoperto che aveva la febbre alta mi sono tranquillizzato, pensando che fosse quello il problema. Ho pensato che avesse preso l’influenza. O il Covid. O entrambi.
Che sfiga papà, non ti sei mai ammalato – sei sempre stato così indistruttibile – e ora ti tocca passare le feste con la febbre. Ma passerà, vero? Passa sempre tutto.
Non c’è nulla di definitivo che ci abbia mai toccato, la nostra vita è stata un susseguirsi di fatti, uno dopo l’altro. Ed è così che deve andare: c’è un adesso ma c’è anche un dopo. Nessuno mi ha mai insegnato il concetto di “sempre”. Perché non me lo hai insegnato, papà?
Lo stavo imparando in quel momento e pure questo era – ancora per poco – qualcosa che non sapevo.
Il saturimetro
Comunque ho messo in pratica tutte le mie conoscenze sanitarie, apprese in anni di ipocondria, frequenza di Google e siti come My-PersonalTrainer.it. Protocollo 1: tampone casalingo. È negativo. Protocollo 2: misurare la pressione. È ottima. Protocollo 3: verificare la saturazione. Non funziona.
Va beh, non c’è nulla di cui preoccuparsi. Questo è un saturimetro preso su Amazon, non va. L’avremo pagato cinque euro. Però magari faccio una chiamata alla guardia medica.
Mi ha detto che forse è il caso di fare un salto in pronto soccorso, giusto per sicurezza. Speriamo che nel giorno di Santo Stefano non ci sia tanta coda.
Il tumore
Mio padre è stato ricoverato quella notte con il sospetto di un’infiammazione. La malattia non aveva dato altri sintomi prima. Nel giro di poco abbiamo capito che fosse una cosa grave, ma c’è voluto qualche giorno per capire quanto.
Per anni nel giornalismo si sono usati eufemismi per definire la malattia. Si usano parole del gergo militare, per dire che c’è una battaglia da combattere, come se alla fine chi perde fosse sconfitto. E sconfitto contro chi o cosa? Pensiamo davvero alla vita come se fosse una partita a scarabeo?
Invece anche il tumore è uno di quei fatti che possono capitare e statisticamente non è neppure così improbabile. A mio padre non è stato dato il tempo per combattere (combattere cosa?), ma questo è solo un tratto della storia e neppure il più importante.
La cosa che ho davvero imparato – di fronte alla malattia – è che siamo tutti un insieme di punti di vista. Nell’ospedale dove mio padre era ricoverato c’era concentrato un insieme di storie, di drammi, di sogni e incubi che non conoscerò mai: ma io ero attaccato soltanto a una vicenda, come se fosse l’unica che importava davvero.
Se la morte mi avesse trovato in quell’ospedale, e mi avesse chiesto cosa fare, se prendersi mio padre o tutti gli altri sconosciuti che stavano lì, avrei sperimentato la forma più egoistica dell’amore.
Mio padre è morto per un arresto cardiaco il 18 gennaio del 2023 all’ora di pranzo, quasi un anno fa. Aveva 67 anni compiuti da poco. Quello che per molti era un mercoledì qualsiasi, per noi era la fine del mondo.
O almeno del mondo che avevamo conosciuto fino ad allora.
Calzini rosa
In un Natale di qualche anno fa, uno dei miei fratelli mi aveva regalato dei calzini a forma di sushi. O meglio, una volta che li ho srotolati non avevano più la forma dei nigiri di salmone, ma solo gli stessi colori improbabili.
Li uso soltanto quando sto a casa e nessuno mi può vedere, anche se a volte penso che la mia vita sia un enorme reality show – come in quel film con Jim Carrey – e mi vergogno delle condizioni in cui mi state guardando in tv.
È strano come il cervello abbia delle forme di auto-difesa. Una delle prime cose a cui ho pensato, quando mia mamma mi ha chiamato per dirmi che papà era morto, sono stati quei calzini. Fra tutti quelli che potevo indossare, avevo proprio quelli al salmone, di un intenso colore rosa.
Stavo andando verso la fine del mondo vestito come uno dei Maneskin.
In realtà il mio corpo stava sperimentando una forma di shock emotivo, come sapevo dalla mia formazione su Google e My-Personaltrainer.it. Il dolore era così forte che non lo sentivo.
Mentre l’auto correva verso l’ospedale, cercavo in tutti i modi di contattare qualcuno della redazione per dire che avrei dovuto staccare un po’, e che non avrei potuto partecipare a una riunione che avevamo in programma.
Poi ho pensato a una mia collega che in quel momento stava per fare l’esame per diventare giornalista professionista. «Speriamo le vada bene», ho pensato. Come se fosse l’unica cosa importante. Come se non fosse successo nient’altro.
Nulla che fosse vero al di là di un sogno, di un bug, di un tuono, di un’esplosione. Nulla al di là di quello che non poteva essere accaduto.
Poi il dolore è esploso.
La fine e l’inizio
Non c’è mai nessuno che ti spiega come si affrontano questi momenti. I medici cercano di darti conforto, ma lo capisci che anche per loro è solo un mercoledì qualsiasi.
Così sono sopravvissuto ai primi giorni del lutto con lo stesso atteggiamento di certe brutte giornate di lavoro. Ci sono vari problemi pratici da risolvere. Bisogna chiamare le pompe funebri, rispondere alle condoglianze, organizzare il ritorno della salma, comporre il necrologio, mostrarsi più forti di quello che si è. Raccontare la stessa storia più e più volte. Recitare il rosario. Scoprire che il “padre nostro” è cambiato e non c’è più nessuno che ci induce in tentazione.
Scegliere quale podcast ascoltare la notte per avere una voce che ti faccia da sottofondo e non pensare, tanto non riuscirai a dormire. Tintoria con Pietro Sermonti come ospite andrà benissimo.
Poi arriva il funerale ed è come se tutto raggiungesse il climax. Siccome mio papà scherzava su tutto, lo aveva fatto anche su questo. Mi aveva fatto promettere che avrei scritto qualcosa per lui e che lo avrei letto. Così ho fatto.
E nella chiesa piena di gente – mentre il freddo correva lungo la navata come se fosse un tornado, come se lì fuori ci fosse in atto una tempesta solare, come se il tempo avesse deciso di rallentare all’improvviso – ha avuto inizio il mio anno del pensiero magico. Mentre finivo di leggere il discorso, ho avuto la certezza che mio padre non fosse davvero morto e che la vita avesse già superato i limiti della fisica e della scienza.
E che ci fosse davvero un’anima. Se non era in un’altra dimensione, sicuramente era entrata dentro di me. Mi aveva reso all’improvviso adulto, con un’altra consapevolezza e con la certezza che non ero solo ad affrontare tutto quel dolore. Non sarei stato mai più solo.
Quel mistero meritava intanto di essere scoperto e poi condiviso – come una rivelazione o come un altro insegnamento che papà mi aveva dato. Il fatto è che il lutto si presenta come la fine, ma invece è l’inizio.
L’inizio di qualcosa. Dovevo solo capirlo.
L’anno del pensiero magico
«Il dolore risulta essere un posto che nessuno conosce finché non ci arriva. Noi ci aspettiamo (sappiamo) che qualcuno che ci è vicino potrebbe morire, ma non spingiamo lo sguardo oltre i pochi giorni o le poche settimane che seguono da presso questa morte immaginata».
«Fraintendiamo la natura anche di quei pochi giorni o settimane. Ci potremmo aspettare, se la morte è improvvisa, di avere uno choc. Non ci aspettiamo che questo choc sia obliterante, disarticolante per il corpo e per la mente. Ci potremmo aspettare di essere prostrati, inconsolabili, sconvolti dalla perdita. Non ci aspettiamo di impazzire, di impazzire letteralmente, di diventare ossi duri, convinti che il marito stia per tornare indietro e che abbia bisogno delle scarpe».
«Nella versione del dolore che immaginiamo, il modello sarà «la guarigione». Prevarrà un certo movimento in avanti. I giorni peggiori saranno i primi. Si immagina che il momento più difficile sarà il funerale, dopodiché avrà luogo questa ipotetica guarigione».
«Quando pensiamo al funerale ci chiediamo se «ce la faremo ad arrivare alla fine», se saremo all’altezza, se mostreremo la «forza» che invariabilmente viene indicata come la corretta reazione alla morte. Si pensa che dovremo temprarci per l’occasione: sarò capace di ricevere la gente, sarò capace di lasciare la scena, sarò capace, quel giorno, anche solo di vestirmi? Non abbiamo modo di sapere che il problema non sarà questo».
«Non abbiamo modo di sapere che lo stesso funerale sarà anodino, una sorta di narcotica regressione in cui ci affidiamo alle cure degli altri e siamo completamente assorbiti dalla gravità e dal significato dell’occasione. Né possiamo conoscere prima del fatto (ed è questo il cuore della differenza tra il dolore come lo immaginiamo e il dolore com’è) l’interminabile assenza successiva, il vuoto, l’esatto contrario del significato, l’inesorabile successione dei momenti in cui ci troveremo ad affrontare l’esperienza della mancanza stessa di significato».
(…)
«Siamo esseri umani imperfetti, consapevoli di quella mortalità anche quando la respingiamo, traditi proprio dalla nostra complessità, e così schizzati che quando piangiamo chi abbiamo perduto piangiamo anche, nel bene e nel male, noi stessi. Come eravamo. Come non siamo più. Come un giorno non saremo affatto».
Joan Didion, L'anno del pensiero magico, Il Saggiatore (pp.153-154; p. 161)
Le onde
Nel primo periodo del mio lutto ho scoperto che esiste tutta una letteratura su questo tema. Era ovvio che fosse così, ma solo quando arriva il momento se ne ha piena consapevolezza.
Parlando con qualche amico abbiamo discusso su questo aspetto, e sul fatto che la società non ci prepari ad affrontare la morte, nostra e degli altri. È profondamente vero, ma allo stesso tempo non sono sicuro che si possa arrivare in qualche modo preparati. Si possono avere più strumenti a disposizione, questo sì, ma poi tocca a noi utilizzarli. O chiedere aiuto.
Comunque succederà in modi imprevedibili, che a mente fredda non possiamo immaginare.
Avrei mai pensato che anche dei calzini rosa potessero diventare un problema?
Ho provato diversi libri e non tutti facevano per me. Ho abbandonato quasi subito uno di Massimo Recalcati, anche con un po’ di sdegno. Ho scoperto che c’è un classico del genere: Diario di un dolore, scritto da C. S. Lewis, l’autore delle cronache di Narnia.
Ma il mio porto sicuro è stato un libro famosissimo di Joan Didion – L’anno del pensiero magico –, che già avevo provato a leggere anni fa, abbandonandolo dopo poche pagine. Nei mesi scorsi l’ho divorato, sottolineato e spiegazzato, trovandoci un insieme di cose che pensavo stessero succedendo solo a me e che invece lei aveva scritto quasi vent’anni prima.
Non penso che sia un libro per tutti e soprattutto non penso che vada letto per forza “in preparazione” di qualcosa che prima o poi ci riguarderà. Io però ci ho trovato la razionalizzazione di una serie di sensazioni – anche molto irrazionali – che mi stavano squassando.
Quando andavo al mare da bambino e passavo la giornata a tuffarmi contro le onde, quando poi arrivava la sera e andavo a dormire, nel buio del letto mi sembrava ancora di sentire le onde che si infrangevano contro di me.
A me il dolore ha ricordato quella sensazione, intangibile ma profondamente fisica. Le onde.
Ci sono stati dei momenti in cui mi ci sono tuffato contro, con lo spirito di chi è cresciuto fra i monti e vuole scoprire qualcosa di nuovo. Altre volte mi hanno preso un po’ alla sprovvista, totalmente a caso, mentre camminavo su un marciapiede a Roma, nel bel mezzo di una riunione o a una festa dove avevo bevuto un po’ troppo.
Le prime volte sembrava di annegare. Poi, piano piano, ho provato anche a nuotarci dentro – per capire se al di là di tutto c’era ancora il sole.
Mentre lo scrivo mi rendo conto che è una metafora abbastanza banale, ma è anche la più fedele che ho trovato.
Contaminazioni
In questo anno ho sentito molte volte la presenza di mio padre, fino a non capire più cosa fosse vero e cosa immaginario. Tutta la nostra civiltà si basa sul concetto di una persona che è morta per gli altri, e se non altro la morte di mio padre è servita per farmi crescere.
Non lo avrei mai voluto, e per molti aspetti non doveva andare così, ma lui avrebbe accettato questa definizione: è stato un atto di morte che si è trasformato in un atto d’amore.
Possiamo anche non accettare che tutto questo abbia senso – e rifiutare tutta la parte trascendente che porta con sé. Ma ci sono fatti inconvertibili, a prova di pensiero scientifico. Noi viviamo anche negli altri. Ed è una questione genetica, ma anche un aspetto culturale e sociale.
Siamo infinite contaminazioni.
Mio padre merita di essere ricordato per la persona che era, per la sua ironia e per una serie di aspetti che rimarranno custoditi nei ricordi della nostra famiglia, dei suoi amici, delle sue colleghe e di chi comunque lo ha conosciuto. E in un certo senso anche in questa newsletter.
Ma se anche il mondo fosse all’improvviso obnubilato da una amnesia globale e se tutti perdessimo la capacità di ricordare, comunque vivrebbe in quello che è stampato in noi, senza che neppure ce ne accorgiamo. Ed è la vera magia che ci rende umani.
Per questo episodio è tutto,
Daniele
Grazie.
Bellissimo e commovente da leggere! Un abbraccio