Se ti piacciono Fedez, Tananai e Mara Sattei è perché hai i vermi nelle orecchie
Come fa un tormentone estivo a scalare le classifiche e a fissarsi nella mente anche di chi lo odia? C'entra il modo in cui funziona il nostro cervello e come ognuno di noi forma i suoi gusti musicali
Cari amici dell’orso Bruno,
La nuova canzone di Fedez, Tananai e Mara Sattei francamente fa schifo. Rappresenta il peggio della musica commerciale e se inciderà nella storia della musica sarà solo in senso negativo.
Questa newsletter potrebbe finire qui e avrebbe un fondo di verità e sicuramente qualche estimatore sui social. Però non spiegherebbe molte cose: perché basta qualche ascolto e questa canzone non riesci a toglierla dalla mente. Ti rimbalza nel cervello mentre sei sulla metro, in coda alle poste o ti trascini fra gli scaffali di un supermercato (tutte esperienze autobiografiche).
Forse è il caso di fare uno sforzo e prenderla più seriamente, ma per farlo bisogna parlare un poco di musica e un poco di come funziona il cervello. Facciamo un passo alla volta, ma con un piccolo spoiler: per riferirci a Fedez dovremo per forza parlare dei "vermi nelle orecchie". Mi spiace che l'immagine sia così cruda. Ma spero che alla fine di questa newsletter possa avere più senso.
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È domenica, ed è tempo di svegliare Bruno!
La musica che ascoltiamo è colpa del nostro cervello
Mi ha sempre affascinato come funzionano i gusti musicali. Perché ci sono canzoni che fanno uscire di testa alcune persone e altre non le sopportano proprio. La risposta più semplice è che è un processo totalmente innato nell'animo umano: qualcosa di molto simile a tutte le altre cose che ci piacciono o che odiamo.
Daniel J. Levitin è uno psicologo e neuroscienziato americano che ha una caratteristica particolare: è un amante della musica rock. Tanto che in passato ha fatto da consulente e produttore per i Blue Öyster Cult, Chris Isaak, Stevie Wonder e Joe Satriani. Qualche anno fa ha scritto un libro intitolato This is your brain in music (sottotitolo: La scienza di un'ossessione umana), che è pieno di spunti interessanti sul tema.
La nostra vita - spiega Levitin - è sempre stata piena di musica.
«Nel grembo materno, circondato dal liquido amniotico, il feto sente i suoni. Ascolta il cuore della madre, quando accelera e quando rallenta. E il feto può ascoltare la musica, come ha scoperto Alexandra Lamont delle Keele University».
«Ha dimostrato che, un anno dopo che sono nati, i bambini riconoscono e preferiscono la musica a cui sono stati sottoposti quando erano nella pancia. Il sistema uditivo del feto è perfettamente funzionante dopo circa 20 settimane dal concepimento».
Ed è poi il motivo per cui su Spotify esistono playlist dedicate ai bambini che non sono ancora nati, come ho scoperto qualche mese fa con un'amica in attesa della prima figlia.
Imparare la musica
L'idea comunque che i neonati abbiano dei gusti musicali, influenzati dai loro ricordi innati, è particolarmente interessante, se si pensa che il loro cervello è ancora in una fase di formazione. I neonati non sanno parlare e non hanno la capacità di fissare i ricordi con il linguaggio. Ma la musica è un potere che non ha per forza bisogno di parole.
Crescendo, poi, la connessione stretta fra musica e ricordi diventa più facile da capire. Il momento in cui la mia vita è cambiata per sempre è quando ho scoperto il potere di una chitarra elettrica.
Erano gli ultimi mesi della scuola media e qualche amico mi aveva passato due cd degli Offspring e uno dei Punkreas. Su Mtv trasmettevano i Green Day e i Blink182: c'era una canzone - Stay together for the kids - in cui distruggevano una casa con una palla da demolizione.
Avevo visto anche un documentario sui Sex Pistols e i Clash. Avevo trovato la colonna sonora perfetta per la mia ribellione adolescenziale. Ho iniziato a strapparmi i jeans, a bucarli con le spille da balia, e a farmi sui capelli una ridicola cresta fissata con la colla di pesce.
Qualche mese dopo, quando ero già al liceo, al ritorno da una gita scolastica su un treno un amico mi ha fatto ascoltare Fear of the dark, una canzone degli Iron Maiden. Aveva la potenza istintiva del punk rock, ma una struttura più complicata, e affascinante, che si univa a un immaginario horror che era la perfetta colonna sonora per i libri di Stephen King.
Gli inizi
Mi piacerebbe dire che questi sono stati i momenti in cui ho formato i miei gusti musicali, e in un certo senso è vero. Ma non sono state le mie prime esperienze con la musica. Ho iniziato da subito ascoltando i dischi con le sigle dei cartoni animati, con un piccolo giradischi portatile che leggeva solo i 45 giri (come nella foto qui sopra).
Poi nella biblioteca del mio paese, dove andavo a prendere in prestito i fumetti di Asterix, c'erano dei divanetti collegati a delle cuffie. Si poteva chiedere alla bibliotecaria di ascoltare la musica, che veniva trasmessa attraverso un giradischi (e questo supportava gli lp). È così che ho iniziato ad ascoltare musica e in particolare una canzone: La solitudine di Laura Pausini. Era il 1993 e avevo sei anni.
Per il compleanno dei miei sette anni, il 4 settembre 1994, i miei genitori mi hanno regalato un paio di guanti da portiere (molto stereotipo) e la musicassetta di Laura, secondo album della Pausini (molto poco stereotipo).
Quando nascono i gusti musicali
Tutta questa parentesi autobiografica è per dire che l'ambiente che ci circonda, e gli altri fatti della vita, hanno un'influenza diretta sui nostri gusti musicali. E questo inizia da piccolissimi.
Secondo Levitin, più o meno all'età di due anni - quando iniziano a parlare - i bambini iniziano già a definire per la prima volta i propri gusti musicali. E lo fanno con una connessione diretta al loro ambiente di provenienza, alla cultura in cui sono immersi e agli stimoli che ricevono.
«Inizialmente i bambini tendono a preferire le canzoni semplici - spiega Levitin -, dove per "semplici" si intendono le canzoni che seguono temi molto specifici e progressioni d'accordi che si risolvono in maniera semplice e prevedibile. Quando crescono, i bambini iniziano a stancarsi di musica troppo prevedibile e iniziano a cercare musica che porti a qualche sfida».
E l'età delle sfide per eccellenza è ovviamente quella dell'adolescenza, quando io ho iniziato ad ascoltare prima punk rock e poi heavy metal.
«I ricercatori concordano che l'adolescenza è il momento della svolta per i gusti musicali – scrive Levitin –. È intorno all'età di dieci o undici anni che la maggior parte dei bambini iniziano a prendere la musica come un fatto davvero interessante, anche quei bambini che non lo avevano mai fatto prima».
«Da adulti, la musica per la quale siamo nostalgici, il genere che sentiamo davvero come "nostro", corrisponde in genere con la musica che ascoltavamo a quell'età».
E c'è un'altra prova molto netta: si è notato che le persone che soffrono di uno stato avanzato di Alzheimer e che hanno cancellato i ricordi dalla mente, molto spesso riescono ancora a cantare le canzoni che ascoltavano a 14 anni. Se mi capiterà, spero che canterò i Blink182 e non Laura Pausini.
Tu chiamale se vuoi…
«Una parte del motivo per cui ricordiamo ancora le canzoni dell'adolescenza è perché quelli sono gli anni della scoperta di sé, e di conseguenza sono carichi di emozioni – spiega Levitin –. In generale, tendiamo a ricordare le cose che hanno una componente emozionale perché in questi casi la nostra amigdala e i neurotrasmettitori agiscono insieme per classificare quei ricordi come importanti».
«Durante gli anni dell'adolescenza, iniziamo a scoprire che c'è un mondo di idee diverse, culture e persone. Sperimentiamo l'idea che non dobbiamo porre limiti al corso della nostra vita, alla nostra personalità e al nostro pensiero su quello che ci hanno insegnato i genitori».
Ed è così che scopriamo nuovi generi musicali.
«Nelle culture occidentali in particolare, la scelta del tipo di musica ha conseguenze sociali importanti. Ascoltiamo la musica che i nostri amici ascoltano», spiega Levitin.
Crescendo i gusti possono poi cambiare, perfezionarsi e portare anche verso rotte molto distanti. Ma dentro di noi ci sono impressi degli istinti musicali che ci definiranno per sempre.
Vermi nelle orecchie
Ma allora cosa c'entra tutto questo con Fedez, o con tutti gli altri tormentoni estivi? Non sorprendentemente, anche questo ha una forte connessione sul modo in cui funziona il nostro cervello.
Nella psicologia il fenomeno viene chiamato come "immaginario involontario musicale" (in sigla: Inmi). O, con un'espressione molto più suggestiva: "earworms", "vermi delle orecchie".
Il termine è in realtà il calco dell'originale tedesco Öhrwurm e non significa ovviamente che abbiamo davvero degli esseri viventi che si nutrono di quello che ascoltiamo. Indica quella tipica caratteristica di certe canzoni di incollarsi nella nostra mente in maniera apparentemente indelebile.
E siccome la musica non è solo arte, ma anche scienza e matematica, esistono ovviamente delle regole per far diventare una canzone cibo per i "vermi delle orecchie". Su questo si basa la fortuna di certi spot televisivi: «Non c'è mare senza canotto / Non c'è biglietto senza ridotto / Non c'è secca senza filotto / E non c'è dodici senza ottantottooo».
La ricetta di Fedez
In realtà la scienza non ha ancora scoperto la formula perfetta che indichi esattamente come una canzone debba essere scritta per fissarsi nella mente. È certo però che esistano linee melodiche codificate e ripetitive, o ritmi che si associano a un particolare stato emotivo.
Come abbiamo visto in questa newsletter, la musica ha poi una connessione stretta con il modo in cui si formano i nostri ricordi. Rendere prevedibile una canzone potrà pure rendercela insopportabile, ma ci renderà più facile memorizzarla. Anche contro la nostra volontà.
Ed è così che penso che Fedez (o meglio: il suo team di autori) stia costruendo la sua fortuna, perfezionando una ricetta già utilizzata dagli altri scrittori di tormentoni.
Un anno fa ha scoperto, un po’ per caso e grazie alla partecipazione a Sanremo, che il modo di cantare di Orietta Berti aveva la capacità di richiamare un immaginario musicale tipicamente italiano, che si radica in una cultura popolare molto diffusa.
Mille era una sorta di jingle pubblicitario (con tanto di marchio citato nel ritornello) che riattualizzava alcuni schemi della musica leggera, che è poi quella che noi tutti abbiamo ascoltato crescendo, anche senza volerlo.
Un anno dopo è uscita La dolce vita, che già nel titolo è una dichiarazione di intenti. All'interno si trovano così tante suggestioni che qualcuno ha pensato che sia un collage di plagi.
C'è chi ci sente Fabio Rovazzi, chi Francesco Gabbani e chi persino la sigla del Medico in famiglia. In realtà, il modo di cantare di Mara Sattei e alcuni innesti sonori rimandano allo stesso immaginario di Mille. E quindi a Edoardo Vianello o Giuni Russo. Non c'è alcun plagio: ma una serie di richiami che non possono essere casuali e che hanno l'effetto di accendere nel nostro cervello alcuni ricordi che non possiamo controllare.
Così si capisce perché questa canzone – che fa francamente schifo e rappresenta il peggio della musica commerciale – si è trasformata in cibo per i vermi nelle nostre orecchie e ha dunque scalato le classifiche. Lo ha fatto in un momento in cui le persone cercavano una colonna sonora che ricordasse le estati del passato, senza nessuna pandemia e con una grande voglia di spensieratezza.
Contribuendo – ma questo è un aspetto forse secondario – al conto corrente di Fedez e dei suoi compari.