Quella cosa che fa Spotify alla fine di ogni anno (e cosa rivela di noi)
A dicembre esce sempre una classifica con la musica che abbiamo ascoltato durante l'anno. Così diventa evidente che gli algoritmi sanno di noi anche quello che vorremmo nascondere
Cari amici dell’orso Bruno,
Nei giorni scorsi ho ricevuto una mail che mi ha fatto capire esattamente in che momento dell’anno siamo, più di Mariah Carey che canta All I want for Christmas e più dell’albero di Natale in redazione.
Ma prima di arrivare a questo, dobbiamo fare come si fa nelle vere newsletter: partire dalle basi e non dare nulla per scontato.
Spotify
La base di questo discorso è che esiste un’applicazione che si chiama Spotify. Lo vedo che arricci il naso e che pensi dentro di te: “grazie al cazzo, Erler”. Ma forse c’è qualcun altro che legge questa stessa newsletter e che non sa di cosa sto parlando. O almeno non sa tutte le cose che ci sono dietro. Quindi perdonatemi se la prendo molto alla larga.
Pirati all’arrembaggio
Spotify rappresenta per la musica quello che Netflix rappresenta per il cinema. C’è stato un periodo nella storia di Internet in cui fiorivano i modi illegali per procurarsi canzoni o film.
Nei primi anni Duemila, scaricare gratuitamente la musica era abbastanza facile. Semmai l’unico problema era che la connessione Internet era molto lenta. E per ottenere l’ultima canzone di Piero Pelù potevano volerci giorni. Ti direi hai ancoraaa voglia diii nuotareee in questo mareeee (sì, c’è stato un tempo della mia infanzia in cui dovevo conoscere Vivere il mio tempo dei Litfiba per sperare in un lento, da ballare nella mansarda del campeggio parrocchiale).
Vedendolo dal punto di vista romantico, scaricare musica era un grandissimo atto d’amore. Perché dovevi stare per ore su programmi come Kazaa, Emule o mTorrent, senza sapere esattamente se e quando avresti potuto scaricare una canzone intera (figurarsi un album!). Dal punto di vista pratico era però un furto, anche se socialmente accettato: ti impossessavi gratuitamente di un bene che altrimenti avresti dovuto pagare.
Il dibattito
Fra i musicisti, ai tempi, c’era un forte dibattito. C’era chi credeva che accettare la pirateria fosse comunque l’unico modo per far girare la musica e dare visibilità a certi artisti emergenti. Alla fine, comunque, i musicisti ne avrebbero in qualche modo guadagnato, perché i fan veri poi sarebbero andati ai concerti o avrebbero comprato la musica originale (per avere una qualità migliore). E Internet, in fondo, era più democratico di qualsiasi casa discografica.
In realtà avevano più ragione gli altri. Ovvero i musicisti che pensavano che accettare un fenomeno così diffuso avrebbe poi semplicemente ridotto i guadagni, fino a rendere non più sostenibile economicamente avere un negozio di musica o un cinema.
Sul finire degli anni Novanta, i Metallica fecero causa a Napster, uno dei programmi che permetteva la condivisione illegale di musica. In un certo senso vinsero, ma senza sapere nulla dei meccanismi che alimentano il web. Chiusa una piattaforma ne aprì subito un’altra, praticamente uguale.
L’alternativa
Per combattere la pirateria serviva una cosa diversa: fornire un’alternativa più vantaggiosa, o quanto meno che mettesse a disposizione un’esperienza migliore. Solo allora le persone sarebbero state disposte a pagare.
Ed è quello che hanno fatto Netflix, Spotify ed epigoni. In cambio di un abbonamento da pochi euro, hanno messo a disposizione una quantità di serie tv o di musica direttamente nello smartphone. Cambiando per sempre il modo in cui ne usufruiamo.
Però il vero cambiamento è stato un altro e mette insieme aspetti di sociologia, marketing, psicologia e una dose di follia capitalista. Oltre alla praticità c’è infatti il fatto che Netflix e Spotify hanno iniziato a essere percepiti come dei “beni essenziali”, almeno nelle generazioni più giovani. Se ci pensiamo è il salto di qualità che ancora non è riuscito ai giornali.
Perché puoi pure non sapere nulla della legge di bilancio o della rivolta in Iran, ma se non hai mai visto Stranger things, ti perderai alcuni dei discorsi che si fanno in tutte le mense universitarie al mondo.
Per riuscire ad alimentare questa sensazione, Netflix e Spotify investono più energie (e soldi) che sul prodotto (che in effetti è rimasto sempre molto simile a se stesso). Ed è questo il contesto che mi fa arrivare alla mail che ho ricevuto qualche giorno fa.
Wrapped
La mail dell’altro giorno l’ha scritta Spotify e l’ha inviata a tutti i suoi utenti. E ha ricordato che a breve uscirà “Wrapped”, un servizio che la piattaforma fornisce ormai da diversi anni.
E altro non è che una playlist con le canzoni più ascoltate durante l’anno. E una serie di classifiche che si possono condividere poi sui social.
Spotify fa questo esattamente per far crescere quel senso “di comunità”, che fa sentire esclusi chi non ne fa parte. Ma in realtà riesce in un certo senso a svelare qualcosa di noi che difficilmente saremmo disposti ad ammettere.
Ovvero: che - per mille motivi - ascoltiamo un sacco di musica di merda! O - detto in maniera più elegante - che abbiamo una serie di piaceri colpevoli (guilty pleasures in inglese), che ci concediamo quando pensiamo che nessuno ci possa vedere. Nelle prime posizioni del mio Wrapped, qualche anno fa, c’era Dua Lipa.
Soprattutto, alla fine di ogni anno, Spotify mi ricorda che posso nascondere un sacco di cose al mondo intero, posso costruirmi un sacco di maschere e darmi un tono che non ho… ma poi alla fine ci sarà sempre un algoritmo pronto a smentirmi! E a rivelare al mondo intero che mi commuovo ascoltando le canzoni d’amore dei Pinguini Tattici Nucleari…
Non trovate che sia un po’ inquietante?
Alla prossima newsletter,
Daniele