Padova può ucciderti più di Milano. La vita nel far est d'Italia
Una cantante pop mette il dito nelle piaghe culturali del Triveneto. Ammettere che ha ragione sarebbe il primo passo per un cambiamento che non tutti sono disposti ad accettare. Ecco perché
Cari amici dell'orso Bruno,
Fra qualche settimana farò un viaggio con alcuni amici a Milano. Non ci ho mai vissuto e l'ho sempre visitata "da turista", talvolta con l'ambizione di immaginarla come il posto che raggiungerò un giorno per realizzare i miei sogni.
Questa visione utopistica della città con il tempo si è un po' smussata. Almeno da quando a Milano vive un'altra mia amica, che ogni giorno mi racconta delle difficoltà di avere una casa, dei mutui spropositati per pochi metri quadri e della paura di crescere un figlio in mezzo a tanto caos e grigiore. Sempre più spesso, mi dice, si chiede se ne valga davvero la pena. A cosa serve sentirsi al centro del mondo, se vivi in una città che piano piano ti uccide?
Non-luoghi
Il fatto di sentirsi consumati – o, al contrario, valorizzati – da una città non è ovviamente una grande novità. C'è una categoria specifica dell'architettura, l'architettura del paesaggio, che si occupa proprio di questo. Qualsiasi riflessione teorica su questo punto, se non si è particolarmente esperti, parte sempre dalle citazioni di un antropologo francese.
Agli inizi degli anni Novanta, Marc Augé ha teorizzato che nelle città esistano i non-luoghi. Sono quei posti dove la modernità si è avventata come un dissennatore, per risucchiarne l'anima. Tutto diventa uguale e omologato: tanto che se avessi un'improvvisa amnesia, potresti faticare a capire in quale parte del mondo ti ritrovi.
Da questo punto di vista, Milano è un esempio di scuola per le sue contraddizioni. Da una parte c'è quello stesso grigiore ed è piena di non-luoghi, soprattutto in periferia. Dall'altra parte, ci sono nuovi quartieri che cercano di ridarle un'anima: come succede a Isola, Porta Garibaldi o Cascina Merlata. Realtà costruite dal nulla, anche grazie ai fondi dell'Expo 2015, e pensate proprio per evitare di sentirsi alieni a casa propria.
Morire di solitudine
Eppure questo rapporto difficile con il-luogo-dove-abiti non è sempre un fattore oggettivo. Qualche mese fa una madre e una figlia sono state trovate morte nella loro casa di un paese del Trentino. La figlia sarebbe morta per cause naturali e la madre anziana di stenti, dopo qualche settimana. Le hanno ritrovate dopo quasi un mese.
In uno dei posti d'Italia che è sempre in testa alle classifiche per qualità della vita, due donne sono morte di solitudine. Nei giorni successivi, sui giornali locali c'è chi si è chiesto se questo non fosse, in fondo, il risultato di una colpa collettiva. A forza di raccontarci che siamo la parte più avanzata d'Italia, non è che abbiamo smesso di occuparci degli altri? O forse, ancora peggio: non è sempre stato così?
Allargando un po' i confini, non significa forse che Padova può ucciderti più di Milano?
La cantante
Oggi Francesca Michielin è una delle cantanti italiane più famose d'Italia. Ha vinto X Factor, quando ancora contava qualcosa, e ora lo conduce. È arrivata seconda a Sanremo e sedicesima all'Eurovision.
Qualche mese fa è uscito il suo nuovo album. Fra le canzoni una è passata inosservata quasi in tutta Italia. Ma non nel Veneto, dove è stata inevitabilmente ripresa e commentata, talvolta con toni sprezzanti.
Si intitola, appunto, "Padova può ucciderti più di Milano" e punta il dito contro gli aspetti più bigotti, codini e retrivi della città.
Il testo fa così:
«Muri di cartongesso e preti nelle università, chi ci salverà? Liberami dal male che mi fai / Una particola al gusto dei miei guai / Padova può ucciderti più di Milano / Se non stai attento ti annebbierà / Lasciami amare chi mi va / Tra semplicismo e semplicità».
E ancora:
«Chiami animale quello stesso Dio che poi preghi dall'altare / Perché dici in giro che siamo tutti uguali / Se poi voti i razzisti ai consigli comunali? / Le battute sconce alle feste di quartiere / Sono minorenne, dai, offrimi da bere / Dimmi, in chiesa che cosa reciti a memoria? / Di un profugo straniero in una mangiatoia / Se non capisci lascia anche vuoto il tuo presepe / Se sta cadendo un ponte è colpa delle crepe».
Boom.
Tutte le cittadine
Ovviamente alcune delle reazioni sono state fortemente provinciali. Come quella di un consigliere del Pd che ha commentato così al Mattino: «Ma perché non Vicenza? O Bassano?». In fondo in Veneto ci sono altre città, perché prendersela proprio con Padova? Come se fosse questo il punto.
La risposta è evidente, ma Michielin lo ha dovuto spiegare in una newsletter (il che la rende inevitabilmente una mia collega, ndr):
«Il titolo è provocatorio, ma "l'analisi" fatta da alcuni sembra voler creare un derby calcistico tra veneti e veneti», ha scritto.
«Padova rappresenta TUTTE le cittadine un po’ più grandi dei paesini di provincia ma non considerabili metropoli, in cui spesso si fatica ad esprimere se stessi, perché si respira il moralismo di un sistema valoriale e di una mentalità chiusa che non contempla, per l’appunto, la complessità, ma elogia e protegge il semplicismo, confondendolo con la semplicità».
«Si va a messa, alla sagra delle castagne, si beve e si fa festa, tutto bellissimo: ma c’è qualcosa di OLTRE da difendere».
«Un SACCO di persone vengono ancora discriminate per il proprio orientamento sessuale o per la propria provenienza, e se ne vanno a Milano o in altre grandi città per sentirsi meno invisibili, o al contrario, meno esposte. Allo stesso tempo, un sacco di persone hanno dimenticato quale sia la potenzialità culturale più profonda di una regione come il Veneto, figlia della Serenissima: un luogo aperto, di intrecci e incontri, di culture differenti, di differenze divenute ricchezza».
Nord est
Dire che Padova è un po' lo specchio di tutte le città di provincia ha però comunque un margine di inesattezza. Sembra un modo facile per fuggire dalla provocazione, che invece ha senso prendere sul serio.
Padova è qualsiasi città, ma del Triveneto, del nord est d'Italia: Padova è Rovigo, Padova è Trieste e Padova è Trento. Perché è vero che ci sono anime contrapposte, in questa parte del Paese. Ma ci sono anche elementi che solo qui si radicano nella storia e nella tradizione, fino a diventare un fattore identitario, più comune di quanto si vorrebbe ammettere.
Il dizionario del Nordest
C'è un libro che lo spiega molto bene. Per puro caso è uscito praticamente negli stessi giorni dell'album di Francesca Michielin. E lo ha scritto, per Ronzani Editore, un lombardo che ha fatto il percorso inverso: da Milano è emigrato in Veneto.
Si chiama Dizionario del Nordest, lo ha scritto Stefano Allievi, che è professore ordinario di sociologia proprio all'università di Padova. È esattamente quello che dice il titolo: un dizionario che spiega il nord est attraverso una serie di lemmi in ordine alfabetico, dalla A di accoglienza alla V di volontariato.
Ovviamente, c'è molto spazio anche per quegli aspetti abbozzati da Michielin.
«La vogliamo dire grossa, sapendo che non da tutti sarà condivisa», scrive Allievi. «L'ospitalità è un modo di essere, prima che un modo di fare, uno stato della mente e del cuore prima che un'azione, una cultura prima che una pratica. È difficile aspettarsi una rispettosa e attenta ospitalità da chi odia o teme gli stranieri in generale, non ha curiosità per le culture, le tradizioni e le lingue diverse, nulla vuole cambiare delle proprie, non viaggia o non ascolta volentieri i viaggiatori, considera ogni cambiamento un'offesa alle proprie tradizioni, ogni innesto un tradimento. (…) Certo, non bisogna generalizzare. Nel Nordest troviamo tutto questo tanto quanto il suo opposto. Ma porsi il problema è necessario».
Capire Zaia
A questo serve la musica e a questo servono, ancora di più, i giornali e i libri. A problematizzare e cercare di capire, anche mettendo in dubbio la propria natura (e l'amore per il posto dove si è nati e cresciuti).
«Si tratta di cultura, non di natura», scrive Allievi. «Nulla di innato, quindi, e tutto perciò modificabile, sottoponibile alle logiche della programmazione, dell'efficienza e del miglioramento. E questa è la buona notizia – si può fare. È una capacità che si può coltivare (che è il senso antico della parola cultura). Ma solo se lo si vuole davvero. Perché lo si sente nel profondo. Perché ci si crede».
Comunque, prendere sul serio certi caratteri insiti all'identità dei luoghi d'Italia farebbe bene anche a chi non ci vive. Quanto meno farebbe capire meglio le radici di fenomeni politici come quelli del triangolo Fugatti-Zaia-Fedriga. Ma, come si dice, questa è un'altra storia. O un'altra canzone. O un'altra newsletter.
Per questo episodio è tutto,
Daniele
Analisi pressoché esaustiva. E lasciami dire un'eresia (dal tuo punto di vista): Trieste no. Trieste è ontologicamente un crocevia, un coacervo di culture diverse, una molteplicità insomma.