La nuova guerra civile americana
Una studiosa ha identificato un copione che si ripete ogni volta che sta per scoppiare una guerra civile. Gli Usa sono sempre più a rischio, anche per colpa dei cambiamenti climatici e dei social
Benvenuti a Wake up Bruno,
Visto che è domenica e potreste avere anche voi quella sensazione leopardiana del lunedì che incombe, la canzone da usare come colonna sonora a questa newsletter si chiama Only the brave ed è dei Tygers of pan tang. Sono inglesi e non hanno fatto la storia della musica, ma questa canzone ha il pregio di cambiarmi l’umore. E fa parte di quella playlist motivazionale che piano piano condividerò con voi e che chiameremo “Canzoni per sopravvivere al lunedì mattina”.
And nothing they do or say
Changes the way you feel
Nothing they do or say
Changes the way, changes the way…
Questo è il secondo episodio della newsletter. Nel primo avevamo parlato di nostalgia, qui parliamo di notizie ingombranti e di una nuova guerra civile americana. Se vi va di aiutarmi, potete consigliare questa newsletter a chi vi segue.
È ora: svegliati Bruno!
L’altra guerra
Il famoso motto del New York Times è “tutte le notizie che vale la pena stampare”. Indica più o meno l'idea che nelle pagine ci sia solo quello che ci sta e che è frutto di una scelta fatta in redazione. Ora, col digitale le cose non sono poi tanto diverse: ogni giornale fa comunque delle scelte, sempre arbitrarie, su quello che vale la pena scrivere.
Poi però se si allarga lo sguardo la situazione è cambiata parecchio. Quando si era in un mondo “pienamente analogico” chi voleva informarsi aveva una possibilità limitata di scelta. Ora questa possibilità si è ampliata e ogni persona può costruirsi il suo palinsesto informativo. Con tutte le notizie che ci stanno in un cervello umano.
Quello che rimane uguale è comunque il concetto che non possiamo interessarci a tutto. Nel periodo più intenso della pandemia i giornali erano praticamente monotematici. Oggi succede lo stesso con la guerra in Ucraina.
Le scelte dei giornali cercano di riflettere, più o meno bene, gli interessi del pubblico di riferimento. E quindi se si parla di certi argomenti è perché si suppone che interessino alle persone che vogliono informarsi. Non erano i giornali a imporre il Covid - come sosteneva qualcuno su Twitter. Erano le persone che non si interessavano ad altro.
Intorno alla bandiera
Questo aspetto è controverso. Perché basta un attimo per scivolare nel complottismo: nell'idea che certi temi finiscano in secondo piano perché qualcuno lo vuole. È la base di un certo atteggiamento paranoide dell'opinione pubblica che, secondo lo storico Richard Hofstadter, caratterizza da sempre la politica americana (e di conseguenza quella occidentale). Non sappiamo tutto, perché qualcosa ci viene nascosto.
Ma un ragionamento a proposito si può fare anche senza essere complottisti: è indubbio che certi avvenimenti - come una pandemia o una guerra - facciano passare in secondo piano tutto il resto. E qualcuno può anche trarne vantaggio, più o meno consapevolmente. È la famosa teoria del politologo John Mueller: le grandi crisi internazionali fanno stringere le persone intorno alla bandiera («rally around the flag»).
È il motivo per cui durante la prima ondata della pandemia la popolarità dell'allora presidente del Consiglio italiano era alle stelle. Su Instagram c'era la pagina delle "bimbe di Conte" che aspettavano con trepidazione erotica le conferenze stampa per i Dpcm.
Distratti
Tornando al presente e alla guerra in Ucraina, l'interpretazione più radicale è che non tutti abbiano interesse nella pace. È quello che ha detto ad esempio il ministro degli affari esteri della Turchia, Mevlüt Çavuşoğlu.
Da una parte perché può essere l'occasione per indebolire definitivamente il nemico russo. Dall'altra perché un nemico esterno può aiutare a far dimenticare certe grane interne, nascondendole nella nebbia della guerra. Ora che c'è un'invasione alle porte dell'Europa e la minaccia di un’apocalisse nucleare, chi ha tempo di pensare alla guerra civile che sta per scoppiare negli Stati Uniti?
Come inizia una guerra civile
Invece è passato solo un anno e qualche mese da quando un uomo vestito da sciamano ha guidato l'assalto a Capitol Hill, nel cuore della democrazia americana. In occasione del primo anniversario, il 6 gennaio 2022, è uscito un libro che ha fatto molto discutere. È intitolato How civil wars start (and how to stop them) e lo ha scritto Barbara F. Walter.
Walter ha studiato per tutta la vita le guerre civili nel mondo, riuscendo a identificare una sorta di copione che si ripete sempre uguale, anche in contesti molto diversi. E ha scoperto che gli Stati Uniti stanno andando proprio in quella direzione. Poco importa che non ci siano più uomini a cavallo come ai tempi di Abraham Lincoln: l’America rischia davvero una seconda guerra civile.
“Mi sono accorta di qualcosa di inquietante - scrive Walter nel suo libro - gli stessi pericolosi segnali di instabilità che abbiamo identificato in altri paesi sono quelli che abbiamo iniziato a intravedere anche da noi”.
Anocrazie
Innanzitutto gli Stati Uniti sono sempre più una semidemocrazia, quella che tecnicamente viene definita come “anocrazia”. Non sono ovviamente uno stato totalitario, ma le istituzioni su cui si fonda sono oggettivamente in difficoltà. Così come tutti i sistemi ideati per bilanciare i poteri (giornalismo compreso).
Secondo gli esperti, questa via di mezzo fra una democrazia e un’autocrazia, che produce una sorta di democrazia illiberale, è il terreno fertile dove si sviluppa l’instabilità che può portare a una guerra civile. Finora nel mondo si è sperimentato soprattutto il processo inverso: il tentativo di imporre una democrazia in un contesto autocratico - come è successo in Iraq o in Libia - ha di fatto creato anocrazie che hanno portato poi a instabilità e guerre civili.
Ma la crisi delle democrazie storiche è un fenomeno relativamente recente e potrebbe seguire strade simili. Soprattutto se ci sono altri segnali tipici di una guerra civile imminente.
Fazioni
Le guerre civili - spiega Walter - si sviluppano essenzialmente a causa di una divisione della società in fazioni diverse, spesso numericamente equivalenti fra loro. In questi contesti, i gruppi politici si identificano sempre meno con le ideologie e sempre di più con l’identità comune dei propri sostenitori.
Questi gruppi si alimentano con una retorica quasi religiosa e soprattutto con una contrapposizione fiera rispetto agli avversari, visti come minacce incombenti per il proprio status sociale.
Secondo Andreas Wimmer, un sociologo della Columbia University a New York, la presenza di queste caratteristiche politiche raddoppia le possibilità che scoppi una guerra civile. Il rischio di instabilità aumenta di trenta volte se tutto questo succede nel contesto di un’anocrazia.
Acceleratori
Ma l’aspetto che ho trovato più interessante del libro di Walter è il fatto che tutto questo discorso si radica ancora di più nella nostra attualità per due caratteristiche fondamentali che rischiano di aumentare il rischio di guerre civili nel prossimo futuro:
Il cambiamento climatico. L’incremento significativo di disastri ambientali aumenterà nei prossimi anni anche le disuguaglianze e costringerà intere popolazioni a migrare. “Nella storia se un paese era già a rischio di una guerra civile, i disastri naturali hanno peggiorato la situazione”, scrive Walter. “In un mondo dove le carestie, gli incendi, gli uragani e le ondate di calore saranno sempre più intensi, portando a grossi fenomeni migratori, le classi sociali in crisi avranno ancora più ragioni per insorgere”.
L’influenza dei social e in più larga misura della disinformazione in internet. “Non è una coincidenza che l’allontanamento globale dalla democrazia sia coinciso con l’avvento di internet, l’introduzione degli smartphone e la diffusione sempre più massiccia dei social network”, scrive Walter.
“Inizialmente Facebook è stato visto come uno straordinario strumento di democrazia. Aiutava le persone a connettersi, incoraggiava lo scambio libero di idee e opinioni, oltre alla diffusione di notizie curate direttamente dai cittadini e non dai grandi media. Ma in breve i social si sono trasformati in un grande vaso di Pandora”, scrive Walter.
“L’èra della condivisione ha costruito strade non mitigate e senza regole per la disinformazione. Ciarlatani, cospirazionisti, troll, demagoghi e agenti che si battono contro la democrazia prima erano tenuti lontani dall’ambiente mediatico, o avevano grandi difficoltà a trovare il loro pubblico. All’improvviso si sono trovati al centro dell’attenzione”. “I social media lasciati senza controllo sono diventati i perfetti acceleratori delle condizioni che portano a una guerra civile”.
Secondo Walter, il problema non è tanto l’esistenza di queste piattaforme ma il loro modello di business:
“Per fare soldi, queste società tecnologiche come Facebook, YouTube, Google e Twitter hanno bisogno di persone che rimangano sulle loro piattaforme per più tempo possibile. Si è scoperto che le persone apprezzano la paura più della calma, le falsità più delle verità e l’indignazione più dell’empatia. Gli utenti sono più propensi a mettere mi piace ai post incendiari rispetto a quelli che non lo sono, creando un incentivo per tutto quello che è provocatorio”.
“È il modo in cui creano engagement che rende i social media così spaventosi per quelli di noi che studiano le guerre civili”.
Priorità
Io non so se dopo una pandemia e una quasi-guerra-mondiale vivremo anche una guerra civile che squarcerà le nostre democrazie. In fondo anche Barbara F. Walter dedica la seconda parte del libro a quello che si dovrebbe fare per evitarlo, spiegando che non è un destino ineluttabile.
Mi interessa però il discorso che facevo all’inizio: il fatto che tutti noi possiamo costruirci ogni giorno il nostro palinsesto informativo e scegliere i temi sui quali concentrare la nostra attenzione.
I due temi del cambiamento climatico e dello sviluppo tecnologico, con tutte le conseguenze che comportano e le problematizzazioni che richiedono, penso dovrebbero essere la priorità assoluta. Finalmente, con molto ritardo, se ne stanno accorgendo anche i giornali.
Nel mio piccolo cercherò di scriverne ancora in questa newsletter e se vi è piaciuta vi prego di lasciarmi un commento e di parlarne ai vostri amici.
Nel frattempo, se volete un ultimo consiglio privo di conflitti di interessi, in edicola fino al 12 maggio trovate Scenari (l’inserto geopolitico di Domani), con un numero intero dedicato alla propaganda russa, all’infowar e alla libertà di stampa.
Questo episodio di Wake up Bruno! finisce qui, se sono davvero puntuale il prossimo arriverà il 15 maggio. Se vi va potete lasciare un commento!