Il mio primo concerto pop
Un viaggio in treno, una sconosciuta, un concerto di Dua Lipa e la libertà che stavo cercando
Cari amici dell’Orso Bruno,
Jennifer ha gli occhi verdi. O forse no. Forse riflettono soltanto il paesaggio austriaco, mentre il treno scivola veloce lungo i binari. Sta guardando fuori dal finestrino e, di tanto in tanto, le sfugge un “Wow” a mezza voce.
Io, seduto di fronte a lei, fingo di leggere un romanzo di Paul Murray, ma ormai ho smesso da un po’. Spero solo che non si sia accorta che non sto più voltando pagina.
La verità è che vorrei parlarle. Non per provarci, o qualcosa del genere. Ma perché la sto già trasformando in un personaggio immaginario – impresso a forza nella mia fantasia – e vorrei almeno darle l’opportunità di raccontarmi qual è la sua vita vera.
Cosa ci fai qui, su questo treno che da Monaco viaggia verso Venezia? Chi è la donna seduta alla mia destra, con cui parli in inglese? E soprattutto: come ti chiami davvero?
Io ti ho dato il nome Jennifer, e penso ti stia proprio bene.
Mentre penso a tutto questo, e inizio a chiedermi se la fantasia, in fondo, non sia una forma di violenza, il ragazzo dai capelli color polenta che condivide lo scompartimento con noi tre si rivolge a Jennifer e all’altra donna — che ormai sono quasi certo sia sua madre — con un inglese dall’accento tedesco.
«Where are you from?», chiede. «Da dove vieni?».
È una domanda talmente banale che mi sorprende non essere stato io a farla per primo.
Viene fuori che Jennifer (anche se il suo nome vero ancora non lo sappiamo) e la madre — che è davvero sua madre — arrivano dalla California. Si sono prese un mese di ferie.
«It's a once-in-a-lifetime trip», dice la madre: è il viaggio di una vita.
Sono state in Scozia, Svizzera, Germania e ora stanno per arrivare in Italia. Prima Venezia, poi Bologna e Roma. Poi una crociera, risalendo lungo la penisola. Si fermeranno a Firenze e a Ravenna.
«Wah, Firenze: wonderful», dice il ragazzo-polenta.
Io mi sento, all’improvviso, come il terzo incomodo — anche se, in realtà, siamo in quattro. Vorrei scomparire dentro le pagine del libro, se non fosse che mi sembra già di essere invisibile.
Se questo fosse un romanzo di Agatha Christie, io sarei la comparsa che muore nelle prime pagine.
E il ragazzo-polenta sarebbe ovviamente il colpevole.
Sono lì, immerso nei miei pensieri, quando mi accorgo che Jennifer sta guardando me.
I suoi occhi sono davvero verdi.
«E tu?», mi chiede in inglese. «Tu cosa ci fai qui?».
Con il mio inglese stentato, le spiego che mi chiamo “Daniele”.
«Daniel, se vuoi. Sicuramente ti suona un po’ meglio.»
Lei sorride. «Daniele», ripete. Con la sua pronuncia, l’ultima vocale sembra fare un piccolo ricciolo nell’aria fra noi.
Dovrei chiederle anch’io come si chiama, ma ho troppa paura che abbia un nome brutto.
Vorrei solo che rimanesse Jennifer ancora per un po’.
Fuori dal finestrino, l’Austria ha deciso di dare il meglio di sé — come se ci fosse uno scenografo che ha messo insieme tre o quattro cartoline.
Ti aspetteresti di vedere le pecorelle di Heidi, lì fuori.
«In un certo senso, anch’io sto viaggiando, anche se non ho attraversato l’oceano come voi, ma mi sono fatto quattro ore di viaggio in treno».
«Da solo?», mi chiede.
«Da solo, sì». E mi rendo conto che suona un po’ melodrammatico, ma in fondo è giusto così.
Il mio cuore rammendato ha appena ripreso a battere.
Le racconto che, da ormai quasi vent’anni, ogni tanto vado a vedermi i concerti da solo. E che di solito sono concerti rock, heavy metal o punk. Questo weekend, per la prima volta, sono andato a un concerto pop.
Ho visto Dua Lipa a Monaco.
«Il fatto è che volevo provare questa esperienza. Capire com’è essere immersi in uno spettacolo così... potente. Ecco, è la parola migliore che mi viene: potente», le dico.
«E sei soddisfatto?», mi chiede.
«Sì. Decisamente sì».
«Ma non è triste andarci da solo?», insiste Jennifer.
«No, anzi. La chiave dell’esperienza è proprio questa: dovresti farlo».
«E cosa si prova?», mi chiede.
«È la libertà», dico io. La libertà più potente che riesco a immaginare.
«Sei lì, in un posto dove non sei mai stato», le racconto.
«E ti accorgi, all’improvviso, di non essere solo uno spettatore, ma parte di qualcosa. Allo stesso tempo, nessuno ti vede e nessuno ti giudica: è liberatorio».
Ripenso a quelle due ore sospese nel tempo, in un palazzetto a Monaco.
«Potresti ballare, o potresti esplodere in una supernova», continuo. «Potresti pure alzarti verso il cielo in una girandola di capriole, e nessuno se ne importerebbe. Potresti gridare nel buio con tutto il fiato che hai in gola, fino a quando ti saltano le corde vocali. E nessuno vedrebbe altro che una persona qualunque – non tu, con il peso di ciò che sei – ma un volto anonimo, senza storia, senza aspettative e senza delusioni»,
«Saresti solo uno spazio da riempire di possibilità inespresse. Saresti solo presente e futuro, perché per gli sconosciuti non esiste il tuo passato».
Mi scrollo dai miei pensieri mentre il treno ha già passato il Brennero.
Siamo entrati in Italia, e il ragazzo-polenta sta spiegando a Jennifer che il paesaggio dell’Alto Adige è molto simile a quello dell’Austria.
«Solo da Trento in poi ti rendi conto di essere entrato davvero in Italia», dice in modo tronfio.
Io e Jennifer non ci siamo mai parlati: era un altro di quei sogni che mi capita di fare a occhi aperti.
Mi ficco le cuffiette nelle orecchie e premo play.
Almeno la musica riesce a creare la colonna sonora perfetta per le vite che non vivrai mai.
Riprendo a leggere e do la colpa a Paul Murray per questa improvvisa voglia di romanzarmi la vita.
Do la colpa a Dua Lipa.
Faccio di nuovo pausa proprio quando il ragazzo-polenta le fa finalmente la fatidica domanda:
«What’s your name?»
Come ti chiami?
«Jennifer», risponde lei, dandogli la mano.
Il libro mi cade e rimbalza nello scompartimento.
Per questo episodio è tutto,
Bruno torna presto,
Daniele
Delle 10 newsletter senza senso che ho scelto di ricevere la tua è l’unica o quasi che non calcola alcun tornaconto, nessuno stratagemma per farsi leggere di nuovo. Riuscendoci più delle altre. Complimenti, un saluto!
p.s. All’esordio spiegasti — se non ricordo male — di aver lasciato un posto da art.1 per un grande quotidiano. Cominciai a leggerti con curiosità e sdegno: «Ma come, datelo a me!», nostalgico com’ero di 5 anni al Carlino.
Ora leggo con curiosità e ammirazione.